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L’architetto e il sovrano

Uno studio sul reperimento e la gestione delle risorse finanziarie per soddisfare le  politiche integrate a favore dell’ambiente e del paesaggio.

Nel tempo l’uomo ha differenziato i bisogni primari da quelli secondari. Nutrirsi, difendersi dai pericoli, curarsi e riposarsi sono necessità che già individuano alcune specializzazioni dell’attività umana.

La suddivisione del lavoro è un importante fattore per le dinamiche sociali: non più un individuo che da solo si procura quanto necessario per sopravvivere, ma compiti distinti all’interno di un gruppo sociale. Quando i diversi ruoli dipendono gli uni dagli altri si instaura un vicendevole scambio che, in un regime egualitario, dovrebbe garantire a ognuno lo stesso livello di benessere. In realtà gli squilibri sono sempre in agguato e nel tempo, oltre all’aggiunta di nuove attività, ogni occupazione viene sopravalutata o, al contrario, sminuita rispetto alle altre, fino a generare forti disparità tra gli individui specializzati a esercitarle.

Nel corso della storia questi squilibri hanno condotto alla costituzione di vertici sociali che, a fronte di un maggiore possesso di mezzi di produzione, regolavano i rapporti di scambio tra le rimanenti categorie lavorative. Queste élites hanno assunto diverse configurazioni nel tempo – proprietari terrieri, eserciti, caste sacerdotali, banchieri – ma la loro superiorità è sempre rimasta ancorata alla capacità di far fluire i prodotti delle varie attività da una categoria ad un’altra, fino a raggiungere il vertice della piramide sociale da essi occupato. In questo modo si sono assicurati un benessere superiore, basato su scambi che più risultavano squilibrati più acuivano le tensioni sociali, con ripercussioni spesso devastanti per l’ordine costituito.

La gerarchizzazione sociale ha influito sull’organizzazione urbanistica del territorio fino alla nascita delle città. Forse è utile rileggere il passo della Bibbia[i] che narra di come il Faraone, in seguito ad una carestia, entrò in possesso di tutto il terreno del popolo mentre quest’ultimo si ammassava nelle città.

L’esproprio del terreno – ovvero dei mezzi di sostentamento – e la conseguente concentrazione della ricchezza nelle mani di uno o pochi riduce i molti a vivere a ridosso di chi organizza loro la giornata, fin nei bisogni primari. Sorgono necessità che la vita di una semplice tribù può non rilevare, legate all’igiene e alla quantità di risorse per mantenere la popolazione nullatenente. Risorse naturali che nel tempo devono riuscire a soddisfare l’ulteriore incremento di popolazione e il desiderio di un maggiore benessere.

Mantenere una società sì strutturata non è mai stato un compito facile, soprattutto in mancanza degli strumenti adatti. Esemplare in questo excursus storico il mito del “Grande Saggio” proveniente dall’antica Mesopotamia che narra di come gli dèi decisero di disfarsi degli uomini, “diventati troppo numerosi”, prima attraverso le malattie e poi con una potente inondazione. La distruzione della moltitudine, difficile da gestire, sembrava il metodo migliore per ricominciare mantenendo in vita solo i vertici, considerati gli unici degni di popolare la Terra che già guidavano. In realtà, nelle crisi e nei rivolgimenti tutti ci rimettono qualcosa, e lo stesso mito ci descrive gli dèi che accorrevano affamati e piangenti “come cani” al banchetto preparato dal corrispondente sumero del biblico Noè.

Divisione del lavoro e segregazione sociale sono perciò intimamente legati all’urbanizzazione del territorio. La città, come luogo principe in cui viene ammassato il popolo nullatenente, e i legami che essa intrattiene con altri siti al par suo, non possono che rispecchiare la gerarchia sociale di una comunità.

Più il benessere si concentra nelle mani di pochi dove finiscono i mezzi di produzione, più la massa viene fatta confluire in agglomerati abitativi maggiormente ristretti. Costruire, trasformare ed ampliare una città diventa allora uno dei ruoli che si assume il suo governo. Se per di più esso è in mano allo stesso signore che gestisce la vita degli abitanti, gli interventi saranno agevolati dal fatto di venir decisi da un organo che possiede il territorio su cui agisce per il benessere del vertice sociale. I tecnici incaricati avranno che fare dunque con un committente ben definito e con ampi poteri, che li potrà impiegare nelle operazioni in cui sono maggiormente capaci. Un caso che non riguarda certo il nostro Paese.

L’Italia, insieme ad altre nazioni della Comunità Europea, ha perso da tempo questa prerogativa. I poteri in materia di governo del territorio – che con la fine della guerra dovevano passare dall’antica aristocrazia alla nuova democrazia – si sono frantumati in una miriade di competenze suddivise tra controllori e controllati spesso in conflitto tra loro.

Il territorio, che dalle mani dei nobili doveva confluire nella ricchezza appartenente a tutti, è stato parcellizzato in una miriade di proprietà su cui per decenni i privati sono intervenuti senza regole. E quando queste sono state emanate si sono dimostrate sperequative contribuendo all’abusivismo e all’inquinamento.

In pratica, al proprietario fisico – l’antica aristocrazia – non si è sostituito quello ideale, la nazione.

La conseguenza è che l’urbanista, sensibile ai problemi del territorio, deve vivere in una condizione di paralitica impotenza di fronte ad un ambiente che viene quotidianamente devastato da interventi senza guida e con forti opposizioni ad essere corretti.

Dove intervenire? Sottolineiamo nei paragrafi successivi le azioni ritenute più importanti.

Cominciamo dall’economia. Uno Stato che pensi di migliorare il proprio tessuto di edifici e vie di comunicazione non può fare a meno di chiedersi da dove prelevare le risorse.

Gli antichi Romani costruirono opere degne di ammirazione utilizzando risorse prelevate dai ceti più abbienti. Vale la stessa cosa per l’Italia di oggi?

Nel 1945 il famoso filosofo Karl Popper lodava le democrazie occidentali che avevano introdotto:[ii] l’imposta progressiva sul reddito; pesanti imposte di successione che vanificavano quasi il diritto di eredità; l’abolizione del lavoro minorile; l’educazione gratuita dei ragazzi nelle scuole pubbliche.

Tralasciando gli ultimi due punti, non pertinenti in questa sede, notiamo che per i primi due l’Italia è riuscita: a costringere la progressività in un bicchiere nell’oceano del complesso sistema impositivo; a quasi eliminare l’imposta di successione.

Il risultato delle operazioni messe a punto è che la ricchezza si è sempre più concentrata in mani private riducendo le risorse a disposizione dello Stato per i propri investimenti, poiché chi possedeva più ricchezze ha contribuito sempre meno alle spese della nazione.

Per alleviare le tensioni sociali, dovute alla necessità di coprire le imposte non pagate dai più ricchi, lo Stato non ha fatto che aumentare il debito pubblico. Nel frattempo, come non bastasse, le classi più abbienti si sono accaparrate i sistemi di raccolta del risparmio e quindi del finanziamento (banche e borsa), dilapidando con manovre incaute gli ingenti risparmi loro affidati.

Questo circolo ben poco virtuoso ha un riflesso nefasto per chi voglia cimentarsi nel governo del territorio: la mancanza di fondi per attuarlo. Solo negli ultimi due anni vi sono stati tagli del 30% agli investimenti per opere pubbliche statali[iii], senza per altro tener conto della situazione dei Comuni italiani, le cui casse ormai languono a causa della congiuntura economica poco favorevole.

Ma il legame tra imposte e urbanistica non termina qui. Sappiamo che nei Comuni italiani una parte delle spese d’investimento è coperta dagli oneri di urbanizzazione. In questo modo ogni Comune ha sempre cercato di ottenere l’approvazione di nuove aree per l’edificazione, così da poter riempire le proprie casse. Le conseguenze sono evidenti qui nel Veneto, dove una permissiva legislazione regionale, tanto in ambito urbano che rurale, ha condotto ad un’urbanistica del tutto speculativa senza organizzazione alcuna. L’ente locale, che avrebbe dovuto indirizzare, controllare e non incentivare il consumo del territorio, ne è stato invece l’artefice.

Il ricorso allo scempio di materie prime è stato incrementato dall’edilizia così incoraggiata. Per fare un esempio, il Veneto subisce da anni il ladrocinio di ghiaia e argilla a basso prezzo. Gli irrilevanti oneri imposti ai cavatori hanno fatto la loro fortuna, ma non certo quella dell’intera collettività che questi imprenditori ritengono invece di aver abbondantemente ripagato con la loro lucrosa attività. Il progresso da loro immaginato diventerà un onere insopportabile per le generazioni a venire, come è già visibile oggi. Lo stesso dicasi per il basso costo con cui da sempre si importa il petrolio, un’altra importantissima fonte di energia per le attività moderne, di cui l’edilizia stessa non può più fare a meno, sia nella fabbricazione che nel trasporto dei suoi prodotti. Se queste materie “fossili”, destinate tra l’altro ad esaurirsi, fossero oggetto di maggiori imposizioni fiscali nella loro estrazione e utilizzo, l’urbanistica e tanti altri settori della società non vivrebbero questi effetti di allucinogeno e passeggero benessere.

Il regresso delle conquiste acclamate da Popper, più sopra citato, si rileva anche dal modo in cui vengono applicate le imposte. Invece di gravare con prelievi fiscali su chi sfrutta l’ambiente depauperandolo di importanti risorse e materie prime, si vessa l’utilizzatore finale.

Allo stesso modo il fisco non tassa per esempio chi continua a costruire case inutili, ma colpisce chi le utilizza, chi le abita.

Per correggere una inefficace tassazione della rendita fondiaria – ma soprattutto per aiutare le casse comunali – è stata introdotta la famigerata imposta comunale sugli immobili (Ici), che ha già cominciato a mietere le prime vittime tra le classi meno abbienti: la casa che il cittadino possiede per vivere, infatti, non è per lui fonte di reddito, come lo è invece per una società immobiliare.

L’Ici crea ingiustizie perché colpisce immobili senza reddito e non agisce in modo progressivo, infierendo con la stessa aliquota indipendentemente dal valore del bene. Una situazione di cui si avvantaggiano ancora una volta le classi più ricche, che non contribuiscono così in modo adeguato alle spese della collettività. Questa imposta diventa altresì sperequativa per i cittadini di Comuni contermini, poiché agevola le finanze degli enti con maggiore territorio edificato, senza tener conto che gli oneri si riflettono anche sugli enti confinanti che sopportano i disagi senza ricavarne un corrispondente beneficio.

Se si dà un’occhiata all’informazione e al sistema creditizio si nota come il consumo e lo spreco di energie vadano di pari passo con una scorretta propaganda sullo stato di salute della nazione. Il cittadino è condotto a comportarsi come se le scorte di viveri fossero sempre adeguate al suo tenore di vita in continuo aumento. La popolazione, che ignora perfino cosa sia il debito pubblico, viene convinta che le banche si comportino in modo eticamente inconcepibile e quindi nel rispetto della collettività. Ma non si può pretendere che le banche perseguano fini di benessere collettivo, quando sono società private dedite a racimolare il risparmio per condurlo nelle mani dei loro azionisti, senza alcuna partecipazione da parte dell’amministrazione collettiva.

Come può allora uno Stato dirigere l’economia se non ha il controllo del sistema finanziario?

Deve vendere il patrimonio “sotto utilizzato” per fare cassa, mentre rimangono intatti i poderi disabitati dei privati. Oppure deve porsi in gara per fornire servizi, quando sappiamo benissimo chi è agevolato dalla asimmetria informativa, con le regole che impongono la massima trasparenza nel pubblico e tacciono per il privato. Se infine accade che alcuni cittadini siano arrivati a possedere ormai i mezzi per comprare parte dello Stato, vuol dire che essi sono diventati potenti almeno quanto esso, facendo temere che la strada imboccata dalla democrazia stia svoltando verso l’antica monarchia.

Per rinunciare al proprio compito di governare, uno Stato non deve far altro che affidarsi a una classe dirigente che pian piano si (e lo) autoprivi del potere. Amministratori all’oscuro dei compiti e del ruolo per i quali sono stati votati sono un’ottima base di partenza vista la facilità con cui dei cittadini passano, di punto in bianco, dai banchi di un’azienda o di un ufficio ai vertici di un ente pubblico.

In Italia, purtroppo, non vi sono scuole adeguate e sufficienti a formare il futuro amministratore e l’educazione civica è praticamente tabù sin dai banchi di scuola. Difficilmente il novello politico potrà sapere a quali risultati conduce la propria azione amministrativa se non è stato adeguatamente istruito e, come in una partita a scacchi, ben pochi saranno i risultati che riuscirà a prevedere come effetto delle sue decisioni. L’azione posta in atto non sarà lungimirante, ma diverrà facile esca degli interessi privati.

L’intervento amministrativo si distingue da quello privato perché ha come fine principale il bene collettivo. L’urbanistica, attore principale nelle azioni territoriali di un Governo, dovrebbe avere maggiore ruolo decisionale e non limitarsi a concedere o meno autorizzazioni. Invece la legislazione sembra ormai orientata a fare dei Governi dei meri concessionari delle iniziative private, essendo diventate queste ultime le fautrici degli interventi più importanti sul territorio. La realizzazione di opere pubbliche è osteggiata non solo dalla mancanza dei fondi necessari ma anche dall’impossibilità di intervenire in un ambiente ormai del tutto in mani private. Ed anche in questo caso l’effetto più pericoloso delle normative, nella fattispecie quelle sull’esproprio, non è tanto la tutela, comunque legittima, dei diritti del singolo quanto il freno dell’iniziativa pubblica. Questa paralisi viene coadiuvata da una giustizia che fa delle peripezie nei labirinti giudiziari il proprio fortino per l’agiata sussistenza di una marea di parassiti. Quando si scivola nel campo della giustizia, il richiamo all’etica professionale viene spontaneo e coinvolgerebbe tutti a più livelli. Limitiamoci invece ai comportamenti dei governi.

Devono essere infatti chiariti i principi su cui deve muoversi l’azione amministrativa di un qualsiasi vertice sociale. Essi non possono interessarsi ai soli rapporti sociali, ma sempre più all’interazione uomo-ambiente. Nell’ultimo secolo si sono sviluppate le linee che legano i fini dell’azione umana con il rispetto per il territorio in cui opera. Una misura di questa relazione è fornita dal modello dell’ “impronta ecologica”, sviluppato una decina d’anni or sono da ricercatori canadesi e che lentamente si sta diffondendo negli ambienti più sensibili alle tematiche della sostenibilità ambientale. Tale modello ha almeno due pregi, al di là delle critiche avanzate da altri studiosi:

  1. commisura il consumo umano per raggiungere un certo benessere ad una fetta di superficie terrestre, fornendo quindi un’immediata valutazione dell’attività umana sull’ambiente
  2. rende conto del fatto che l’aumento di efficienza non implica necessariamente una diminuzione dei consumi.

Nel primo punto confluisce una rilevazione della disparità di consumi nel Mondo, rappresentata con il seguente paradosso: se tutti gli uomini consumassero le risorse di un americano medio, per mantenere tutti occorrerebbero tre pianeti come la Terra. Ciò dovrebbe far riflettere.

Il nostro sistema è infatti fortemente energivoro tanto in fase di costruzione che in quella di gestione. L’avere accesso a fonti energetiche a basso costo ha condotto allo spreco e al lassismo. In campo edilizio viene permessa, attraverso un’obsoleta normativa nazionale sul risparmio energetico, la progettazione di edifici che consumano almeno il doppio di quelli costruiti secondo normative da tempo adottate in altri Paesi. L’immobilismo legislativo nei settori vitali come l’energia non fa che sottrarla alle attività di gestione per consumarla in quelle speculative. Si pensi infatti ai guadagni di un’immobiliare che costruisce edifici termicamente poco isolati, a dispetto dei consumi di chi andrà ad abitarli.

Quale posizione possono assumere i progettisti del territorio? Ovviamente quella a cui soggiacciono da sempre i professionisti in genere, dal momento in cui viene loro commissionato un edificio fino alla pianificazione della città, come toccò al greco Fidia e al francese Haussmann, per citarne alcuni. E’ sicuramente una posizione prona al benessere del committente ma non per questo priva di un’alta valenza sociale, sia per l’impatto generale che per l’esempio lasciato.

In questo caso il tecnico propone e concretizza le proprie idee, che possono essere di vantaggio per pochi o per molti, con un impatto sociale tanto maggiore quanto più territorio viene interessato dal progetto. Il progettista è solo in attesa del committente autorevole che gli fornisca il materiale su cui plasmare la propria idea. Un committente che sia quindi legittimato a governare il territorio.

Vi sono sicuramente due vie che una società ha imparato finora a percorrere nella ricerca del governo migliore: quella di affidarlo ad un nobile sovrano, oppure ad uno stato sovrano. Lo stato democratico può dimostrare di essere migliore di quello in mano alla nobiltà, in quanto riesce a sostituire i vertici incapaci per il fine cui sono preposti. La nobiltà si ammala invece presto del ‘morbo ereditario’, pensando di trasmettere con la parentela anche le qualità dell’originario elemento valido. Fattore indispensabile rimane invece la sovranità: quando essa manca, non vi è possibilità di coordinare le azioni sul territorio, indipendentemente dal soggetto al vertice della piramide sociale. Sovranità che non è ancora sufficiente per il benessere della piramide sociale, ma deve fondarsi sul rispetto degli uomini e dell’ambiente. I progettisti sono da tempo pronti al loro compito: manca un committente autorevole che ne apprezzi l’ingegno.

Per i migliori fini della collettività si vogliono qui riassumere le linee guida ritenute indispensabili: imporre la presenza del governo territoriale all’interno di tutti i livelli del sistema bancario, con funzioni di indirizzo e controllo; ripristinare la progressività della tassazione sui redditi, anche immobiliari, eliminando i rimanenti balzelli; istituire l’insegnamento dell’antropologia, ecologia ed economia in qualsiasi tipo di scuola; istituire scuole per la preparazione dei futuri politici, obbligatorie per i candidati amministratori; monitorare il patrimonio edilizio privato per il controllo ed eventuale esproprio ai fini ridistributivi dei capitali non utilizzati; perseguire la demolizione degli edifici obsoleti o energivori non riconosciuti di pregio.

Da anni i progettisti si chiedono come migliorare la vita nelle città e, al contempo, agevolare lo sviluppo economico. La chiave del problema sta nelle loro mani molto meno di quanto si pensi, perché non si tratta di trovare soluzioni già ampiamente sperimentate in vari luoghi ed epoche, ma di superare le difficoltà nell’attuarle.

Sappiamo già come tessere una trama comunicativa nel territorio, in grado di trasferire gli elementi a una velocità adatta da un punto all’altro dei suoi nodi, le città. In questo breve studio abbiamo cercato di dimostrare che le soluzioni esistono, ma anch’esse rimandano all’eterno dilemma: l’umanità sarà capace di perseguirle in maniera ragionata o avrà bisogno di passare attraverso il travaglio di tribolate rivoluzioni?

 Lodovico Mazzero, ingegnere edile


[i] Genesi 47.

[ii] Roberta Corvi, “Invito al pensiero di Popper”, Milano, Gruppo Ugo Mursia Editore S.p.A., 1993.

[iii] Dalla rivista “Ponte”, n.7/2005.

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