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La bugia nel mondo classico

Noi siamo forse la prima generazione che si pone in rottura con le nostre ‘radici’ perché il mondo tecnico ci permette di vivere anche senza memoria. Ma in essa troviamo molte spiegazioni. Come la bugia e la sua storia.

Il mondo classico per esempio, in primis quello greco, mostra differenze rispetto alla tradizione successiva ebraico-cristiana dove c’è una forte associazione tra verità e Dio in un monoteismo che riconosce una verità con un volto solo. La tradizione classica si fonda invece sul politeismo laddove il divino si manifesta in molte forme e anche la verità ha mille sfaccettature e quindi sfugge.

Nei tempi arcaici c’erano le sentenze dei Sette Sapienti e c’erano Esiodo e Le Opere e i Giorni ad ammonire a non mentire ma a dire il vero (“Se uno conoscendo la verità, la proclama, a lui Zeus dall’ampia pupilla darà la felicità; a chi invece coscientemente giurerà il falso e renderà falsa testimonianza, ingannando la giustizia, commetterà irreparabile crimine e lascerà dopo di sé la progenie sempre più oscura, mentre fiorirà la discendenza dell’uomo che ha giurato il vero”, Le Opere e i Giorni, vv. 274-285) così come nell’ottavo comandamento ebraico si dice “non dire falsa testimonianza”. Ma nella mitologia classica anche gli dèi mentono e anche il Padre degli dei, Zeus, garante della testimonianza e della giustizia, è autore di inganni, di seduzioni e di metamorfosi in un continuo gioco dell’apparire che si sostituisce all’essere. La menzogna del resto è apparenza che si dissocia dall’essere. E pur essendo presente la sanzione per chi mente, si tratta di un modo diverso da quello ebraico-cristiano successivo, che lo ha fatto divenire un modo di essere. Se a Dio corrisponde una verità con un volto solo, ci si pone in un modo così radicale che non può non far pensare, soprattutto oggi: vedendo il monoteismo nel mondo agire in modo così radicale non ravvisiamo in questo una causa di violenza?

La cultura classica sdrammatizza. Il politeismo è più elastico. E chi è allora il latore della verità, se non lo sono neppure gli dei? Il poeta. All’inizio delle grandi opere della poesia arcaica vi è questa testimonianza: l’opera nasce per ispirazione. Ma è ambigua: nell’Inno Omerico a Ermes, delle Muse si dice (560-563) che ‘quando, per aver mangiato il biondo miele, sono prese dall’ispirazione, benignamente consentono a rivelare la verità; ma se sono private del dolce cibo degli dei, allora mentono, turbinando confusamente’. C’è dunque una variabilità, non è cosa certa e si procede per analogie e per omogeneizzazioni, non per contraddizioni, come sarà un giorno nella filosofia. Quando all’inizio dell’Iliade (I, 74) Achille chiede all’indovino Calcante di spiegargli perché la guerra non proceda, egli risponde: ‘Achille, tu m’ordini, o amato da Zeus, di spiegare l’ira di Apollo, del sire che lungi saetta: e io parlerò certamente. Ma tu comprendimi e giurami che mi proteggerai con parole e con mano, benigno: penso che un uomo s’adirerà, che molto su tutti gli Argivi è forte e gli Achei gli obbediscono. Troppo forte è un re, quando s’adira con un popolano…’. Egli chiede dunque se può parlare con franchezza oppure dire quello che si vuole egli dica, visto che è un popolano e ha di fronte un re. Si introduce così un’altra distinzione: nel mondo antico, si dice la verità o si mente, secondo la classe cui si appartiene. Il re ha maggior diritto alla verità rispetto al suddito, l’uomo rispetto alla donna, l’adulto rispetto al bambino. Da questo rapporto dipende perciò anche la gravità della bugia. Essa, pur non legata al divino, diventa però riprovevole quando è esercitata tra pari, tra membri della stessa comunità. E’ invece ‘astuzia’ quando è utilizzata fuori della comunità, contro l’altro, contro ‘il nemico’. Proprio da una astuzia simile, dalla costruzione del Cavallo di Legno a Troia, ha inizio l’attacco dell’Occidente all’Oriente che Alessandro Magno continuerà, seguito poi dai Romani contro i Parti, in una contrapposizione tra abitanti del mare (Peloponneso) e abitanti della terra (Asia), tra lo scorrere e l’essere stabili. In questo contesto, la menzogna assume una missione civilizzatrice e anima l’eroe dell’Occidente, Odisseo (Ulisse), che è un mercante. La sua infatti è una cultura che si basa sul mare e combatte contro gli altri popoli, gli ‘altri’, i ‘nemici’. La menzogna ha dunque una connotazione morale se avviene all’interno della comunità, mentre è ‘ammirata’ se esercitata fuori. Nelle altre culture non è fenomeno così diffuso l’esaltare la finzione e forse questo lo dobbiamo proprio al fatto che esiste uno iato tra verità e Dio.

L’ambiguità della menzogna ha dunque il suo rappresentante più significativo nell’eroe Odisseo che è protetto da due divinità: Atena e Hermes. Atena rappresenta la facoltà della prudenza accorta del saggio, che emerge quando deve difendersi in caso di difficoltà: salvare la vita a sé e a parte dei suoi compagni nell’antro di Polifemo, per esempio. Ma anche quando ritorna a Itaca e si trova, mendìco, straniero in casa sua: ‘Come una cagna, che i teneri cuccioli bada, se non riconosce l’uomo, latra e si tien pronta a combattere, così dentro latrava il suo cuore, sdegnato dalle azioni malvagie. Ma comprimendo il petto, rimproverava il cuore: sopporta cuore, più atroce pena subisti il giorno che l’indomabile, pazzo Ciclope mangiava i miei compagni gagliardi, e tu subisti, fin che l’astuzia – mhtis – ti liberò da quell’antro, che già di morire credeva’ (XX, 14-21). Un passo importante che rappresenta la prima comparsa dell’interiorità nella cultura classica: il cuore, il contrasto tra il dentro e il fuori. Se tutto è esteriore non c’è bugia, ma se esiste un’interiorità e le sue ambiguità allora il discorso è differente. Diventa una non manifestazione, un occultamento delle emozioni, una astuzia difensiva che dissimula, che non mostra ciò che ha. A Odisseo che ha appena parlato per persuaderlo, Achille risponde (Iliade, IX, 312): ‘Odioso mi è colui, come le porte dell’Ade, ch’altro nasconde in cuore e altro parla…

Odisseo è ‘paziente’, è l’uomo che sopporta. Rappresenta la lotta dell’uomo nei confronti delle forze della natura, sempre prevaricanti. L’eroe non è chi va oltre, ma colui che sa sopportare ed è prudente.

Ma alle spalle di Odisseo c’è anche Hermes ed egli rappresenta l’astuzia che vuol far male. Con l’accecamento di Polifemo, Ulisse salva sé e i suoi compagni. Ma quando il mostro inveisce contro di lui, egli si svela e da il via a tutte le conseguenze che lo porteranno a peregrinare per dieci anni sul mare. Egli dimostra arroganza, il voler avere di più. Non più solo per salvare sé e gli altri all’interno di un codice di comportamento, ma per compiere azioni malvagie. Ulisse rappresenta oggi l’eroe che vuole andare sempre oltre i limiti, a qualsiasi costo, secondo il modo in cui lo ha consacrato Dante nella Divina Commedia. Ma fino al I sec. d. C. egli mantenne questa ambiguità.

I poemi omerici fanno da corrispettivo a quel libro sacro che non c’è nel mondo classico. Fino a chiedersi: è meglio Achille che dice sempre la verità o Ulisse che mente? E’ insomma migliore colui che, pur conoscendo la verità, dice il falso oppure chi mente senza saperlo? Se lo chiede Platone, per bocca di Socrate, nel dialogo giovanile dell’Ippia Minore. E la risposta è indubbia: saggio è colui che conosce la verità e dice la menzogna.

La questione colpiva la sensibilità e poneva lo sguardo sul mentire non più come bugia buona o come astuzia, ma sull’investitura divina del Vero. Da qui nacque la Filosofia, uno strano fenomeno culturale, assente negli altri quadranti mondiali. La Verità intesa dunque come fenomeno incontrovertibile, dove la Sofistica diventa una contraddizione perché flessibile, laddove la Filosofia ha invece paradigmi rigidi. Nasce così un cammino che consentirà alla cultura classica di accogliere la filosofia mosaica. Atene e Gerusalemme, da Alessandro Magno a Giustiniano, si incontrano anche perché i filosofi hanno creato un Dio che ben vi si accompagna ora. Ecco dunque che non si accetta più l’eroe sfaccettato che è Ulisse. Adesso si spiega cos’è la menzogna: yeudos, che vuol dire sia ‘menzogna’ che ‘errore’. Ma l’elemento ‘intenzionale’ non è ancora preciso, è sfumato. La colpa è insomma sconnessa dall’intenzione così come la menzogna. La valorizzazione dell’elemento ‘volontà’ avverrà in seguito. Nel mondo classico dire bugie significava dire una cosa che non è o è diversa da quella che è. Un elemento oggettivo però che non ci soddisfa. Tutta la letteratura si può definire una bugia, il denaro, anche gran parte della cultura umana si regge sulla finzione. L’economia globale ad esempio: se tutti andassimo a chiedere i soldi in banca cosa accadrebbe? Il concetto di denaro si basa su quello che non è, su quello che non c’è in realtà.

La volontà di ingannare come determinante verrà introdotta quando la cultura ellenica entrerà in contatto con quella romana. Nel diritto romano vi è la distinzione tra ciò che si compie con intenzione, per caso, con colposità. Diverrà decisivo in tal senso il trattato di S. Agostino, De mendacio, che è il primo testo dove si parla della menzogna, dell’intenzione individuale e del rapporto di verità personale: ingannare l’altro con l’intenzione di farlo. C’è la bugia officiosa, il mentire per sceglier e il male minore; c’è la bugia iocosa, lo scherzo per produrre gioia; perniciosa, quella dannosa Non conta a questo punto l’oggetto, ma l’intenzione. Si può allora mentire anche dicendo la verità. Non sono più le cose o le parole a essere menzognere, ma l’individuo. Da qui la grande sfida della Filosofia: il volersi distinguere dalla Retorica. Come oggi. La filosofia attualmente ha due vie: recuperare la grande tradizione e recuperarsi come parola (Ermeneutica), abbandonare questa parola per una rigorizzazione ulteriore (Logica). Si ripropone la duplicità della parola: leggera (e quindi seducente) ma pur pesante, come i fiocchi di neve.

Ecco perché la Letteratura è grande rispetto al testo sacro: ha ironia verso sé stessa, sospende la credulità e l’incredulità, è una dimensione individuale. I testi sacri impongono una realtà unica. E nella letteratura? Pensiamo all’Odissea. Chi racconta tutte le peripezie, i viaggi e le avventure occorse a Ulisse? E’ lo stesso Ulisse. E dunque chi può smentirlo? Chi ci dice che egli non fosse solo un mendicante di passaggio che se la passava male e aveva trovato un modo per sbarcare il lunario? Una bugia dalle sfaccettature molteplici è una risorsa rispetto a una verità unica associata al divino del periodo successivo, ebraico-cristiano. Una verità costringente che può far cadere nella spirale della violenza, per difenderla. Nella Grecia classica il sacrificio venne sostituito, nelle tragedie di teatro, da una messinscena dei miti, sempre plurali e contraddittori ma che permisero agli uomini di non sgozzarsi tra loro…

Paola Fantin

(Appunti tratti da una conferenza tenuta il 22 febbraio 2005 a Treviso, presso l’Associazione Italiana di Cultura Classica, dal prof. Andrea Tagliapietra, docente di Storia della Filosofia moderna e di Ermeneutica filosofica all’Università Vita-Salute S. Raffaele di Milano)

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