Teoria del linguaggio in Aristotele: il De Interpretatione

 

di Paola Fantin, glottologa

 

 

Riferendoci al "linguaggio" si può intendere in modo generale un qualunque sistema di segni: si parla di linguaggio delle api o di linguaggio delle macchine, a seconda del modo di trasmettere o di elaborare le informazioni. In stricto sensu, parliamo in primis di linguaggio umano. Linguaggio quindi si riferisce all'insieme delle proprietà che sono comuni a tutti i sistemi di segni usati dalle società umane, indipendentemente dalle forme particolari che chiameremo "lingue" dei singoli sistemi storicamente realizzati.

Noi non sappiamo come ha avuto origine il linguaggio, perché non esistono prove dirette nel nostro passato. Di conseguenza si sono azzardate molte speculazioni, tra cui la teoria su di una derivazione divina o la teoria di tipo orale-gestuale, per citare le più note.

Quest'interesse per il linguaggio affonda le radici in tempi molto antichi, per la curiosità che i suoi aspetti e i suoi fenomeni hanno da sempre suscitato nell'uomo. Pare opportuno iniziare la storia degli studi linguistici dai risultati raggiunti dai Greci antichi, in particolar modo da Aristotele, perché il loro interesse per un'indagine linguistica iniziò in Europa quegli studi del linguaggio che si possono definire in lato sensu la scienza linguistica. All'epoca in cui ci è pervenuto qualche notizia di una scienza linguistica greca (agli inizi del V a.C), i Greci da molte generazioni si erano stabiliti nel continente greco, sulle coste dell'Asia Minore, nelle isole dell'Egeo, sulle coste orientali della Sicilia ed in pochi luoghi dell'Italia meridionale. Essi, già allora, non solo erano consapevoli dell'esistenza di popolazioni che parlavano lingue diverse dal greco (e che non mancavano di designare "Barbaroi" ad indicarne l'incomprensibilità comunicativa) e che avevano spesso avuto modo di incontrare nei loro traffici commerciali e nelle fondazioni coloniali, ma erano altresì coscienti della suddivisione in dialetti della propria lingua, dovuta alle numerose invasioni e alle particolarità geografiche greche. Erodoto testimonia la loro consapevolezza di più dialetti uniti in un'unica lingua: "...l'insieme della stirpe greca, unica per sangue e per lingua..."[1].

Lo sviluppo e l'uso della scrittura furono fonte del primo successo della linguistica greca e ciò è attestato dalla parola grammatikos, inizialmente atta a designare chi poteva leggere e scrivere, fino ad un ampliamento del significato che attesta l'ulteriore sviluppo della linguistica specialmente nel campo della grammatica.

Osservazioni linguistiche, sempre con riferimento al greco, le troviamo in testimonianze riguardo ai filosofi presocratici, ai retori del V a.C, in Platone e Aristotele con maggior differenziazione degli studi linguistici cogli Stoici. Platone dedica un suo dialogo, il "Cratilo", alle disquisizioni di questioni linguistiche e di lui Diogene Laerzio disse che "investigò per primo le possibilità della grammatica..."[2] riconoscendogli il merito di aver dato impulso agli studi grammaticali.

Aristotele, dal canto suo, costituisce una vera e propria pietra miliare nell'evoluzione della scienza linguistica. Mentre Platone si era soffermato sul problema ontologico del rapporto nome-cosa, chiedendosi innanzitutto quale funzione avesse il segno linguistico, Aristotele non cerca più di determinare le cause dei nomi e il perché della loro rispondenza alle cose, ma in primis cerca di stabilire il fine del linguaggio e quindi la funzione che ha il nome in quanto simbolo. "La scienza del pensiero e del linguaggio, in greco chiamati entrambi lògos nel senso di segni delle cose, è la logica di cui Aristotele può essere considerato a buon diritto il fondatore, anche se egli non usa il termine logica per indicare tale scienza, ma la chiama piuttosto analitica perché analizza e scompone il pensiero nei suoi elementi"[3].

Per Aristotele essa è strumento delle altre scienze, ma è in primis scienza di per sé e suo ruolo è occuparsi del pensiero e del linguaggio e attraverso essi delle realtà e delle loro relazioni di cui sono segni.

Malgrado innumerevoli e spesso contraddittori studi della logica che si contendono Aristotele, dagli assertori di una logica assolutamente formale sconfinante nella matematica ai tradizionalisti che la subordinano all'ontologia e alla gnoseologia, per E. Riondato[4] probabilmente Aristotele non appartiene né all'una né all'altra schiera, ma di certo fu il primo ad impostare i problemi logici e a definire un primo e adeguato linguaggio tecnico.

Opera logica particolarmente significativa per l'esposizione della teoria del linguaggio in Aristotele è il De Interpretatione (peri ermhneias) che tratta "...giudizi (relazioni tra concetti) o rispettivamente proposizioni (relazioni tra termini, cioè fondamentalmente soggetto e predicato)..."[5]. Preferisce usare il termine "enunciazione" anziché "giudizio" o "proposizione" E. Riondato[6], affermando che Aristotele nel De Interpretatione non studia l'atto (giudizio) con cui si afferma o si nega qualcosa, ma piuttosto il termine (enunciazione o proposizione), mediante cui si esprime una negazione o affermazione. L'autore inoltre preferisce definire col termine "enunciazione" la parola "proposizione", perché quest'ultima può far pure riferimento allo studio grammaticale e sintattico, cui la logica pur in relazione non è riducibile.

Secondo D. Di Cesare[7], diversamente da Platone che dedicò un intero dialogo al problema del linguaggio specificamente, altrettanto non si può dire di Aristotele che non elabora alcun'opera con tema centrale quello linguistico. Per cui, opere come il De Interpretatione, la Poetica o la Retorica, contrariamente a quanto spesso affermato, si occupano del linguaggio solo perché riconosciuto importante in riferimento all'oggetto della trattazione, sia logica, arte o retorica.

In ogni caso, per E. Riondato[8], la presenza di un'opera come il De Interpretatione non può far altro che svelare il profondo interesse antico per questo genere di problema e dimostrare come lo stesso Aristotele ne fosse profondamente attratto, tanto da dedicarvi diversi spazi in altre opere.

L'oggetto trattato dal De Interpretatione viene annunciato da Aristotele nel cap. 4, dedicato al discorso, proprietà del quale è l'esprimere il vero o il falso. Si tratta perciò dell'enunciazione analizzata nella forma di affermazione o negazione. I primi capitoli hanno un valore introduttivo e snodano il percorso compiuto da Aristotele nell'abbozzo della sua teoria linguistica. In essi si distinguono i termini su cui un discorso si deve fondare, cioè le parole. Si pongono i fondamenti del valore da attribuirsi a quelle concatenazioni di parole costituite da nome e verbo.

Dopo aver stabilito che in quest'opera si occuperà del nome, del verbo, della negazione, della affermazione, del giudizio e del discorso, Aristotele dice:

"Or dunque, i suoni della voce sono simboli delle affezioni che hanno luogo nell'anima e le lettere scritte sono simboli dei suoni della voce. Allo stesso modo poi che le lettere non sono medesime per tutti, così neppure i suoni sono i medesimi; tuttavia suoni e lettere risultano segni, anzitutto, delle affezioni dell'anima che sono le medesime per tutti e costituiscono le immagini di oggetti già identici per tutti" (De Interpr. 16a, 1-8).

Appare evidente come in questo passo Aristotele cerchi di porre una relazione tra i livelli della realtà, del pensiero, delle forme linguistiche orali e delle forme linguistiche scritte. In particolare, oggetto di riflessione è il rapporto interno al segno linguistico forma-contenuto (suoni della voce o jwnh, affezioni dell'anima o paqhmata yuch ), nel desiderio di stabilire in che modo le forme linguistiche siano simboli dei processi psichici che si originano nella coscienza.

Secondo D. Di Cesare[9], pur con ogni possibile riserva sul corretto parallelismo terminologico, questo tipo di rapporto è paragonabile al moderno rapporto significante-significato[10], dove significante per Aristotele non è però l'immagine acustica, ma ciò che esprime il contenuto della coscienza che si trova spesso ad esser identificato in un gruppo di suoni o lettere corrispondente sul piano espressivo ad un certo paqhma. Riguardo al significato G. Capozzi[11] dice: "In Aristotele il significato è identificato, oltreché con l'impressione mentale o immagine oggettuale, anche con l'oggetto o con la res, in una distinzione che può esser approfondita e resa con significato ideale e significato reale". In questa bilateralità di significato, intellettuale e sensibile, egli ritiene che al segno corrisponda in primis il significato ideale (impressioni mentali-immagini oggettuali) e solo in un secondo momento quello reale. Secondo G. Capozzi tale subordinazione del segno piuttosto al significato ideale (immagine) che al significato reale (res) è condizione fondamentale per garantire al segno l'oggettività che esso non ha in sé, a causa della sua arbitrarietà o meglio della sua convenzionalità:

"Il nome è così suono della voce, significativo per convenzione" (De Interpr. 16a, 19).

Alla base dell'arbitrarietà D. Di Cesare[12] chiama in causa il ruolo che nella lingua ha il fonema. Pur privo della semanticità propria di nome e verbo, possiede la capacità di significare e di costituire la base per la semanticità. Quando a taluni suoni si assegna per convenzione (kata sunqhkhn) la funzione significativa, essi divengono da elementi naturali della voce a prodotti di una scelta arbitraria umana. Importante conseguenza di tale scelta è la varietà linguistica dove, in una serie illimitata di suoni vocalici, ogni comunità linguistica ne ha prediletti alcuni, aggregandoli poi a delle consonanti e costituendo così un sistema fonologico.

La diversità linguistica risulta perciò non essere una semplice diversità fonica, ma fonemica. Avviene quindi che proprio questa scelta assolutamente arbitraria differenzia il linguaggio umano da quello animale che, pur essendo talvolta articolato, non è mai simbolico né caratterizzato da intenzionalità finalistica:

"Abbiamo detto inoltre per convenzione in quanto nessun nome è tale per natura. Si ha un nome piuttosto quando un suono della voce diventa simbolo, dal momento che qualcosa viene altresì rivelato dai suoni inarticolati - ad esempio delle bestie - nessuno dei quali costituisce un nome" (De Interpr. 16a, 27-30).

In De Interpr. 16a, 1-8, Aristotele non pare comunque soffermarsi troppo sul problema della varietà linguistica e su come sia avvenuto tale processo di incivilimento attraverso cui le jwnai hanno ricevuto la loro funzione.

Certo è che A. Zadro[13] evidenzia a questo punto una profonda aporia, un regressus ad infinitum. Egli afferma che così stabilizzata fisicamente e foneticamente la jwnh diventa un dato de facto, un pragma. Per cui "se ogni jwnh rimanda ad un paqhma ed un paqhma alla cosa, e la jwnh è una cosa, necessariamente essa richiede per sé un paqhma in quanto jwnh e anche una jwnh ulteriore per significare questo paqhma...". Soluzione sarebbe togliere di mezzo l'intermediazione dei paqhmata "avendosi allora solo due livelli, jwnai e pragmata...".

A questo punto D. Di Cesare ritiene necessario chiarire bene il rapporto pragma-paqhma, in primis alla luce di un'interpretazione tradizionale che se da una parte pare riconoscere l'arbitrarietà del rapporto tra forme linguistiche scritte e orali, tra forme orali e paqhmata, d'altro canto sostiene l'esistenza di una corrispondenza tra realtà e pensiero, diffondendo l'idea che Aristotele "avrebbe teorizzato un parallelismo tra il piano della realtà, del pensiero e del linguaggio, per cui ad ogni oggetto corrisponderebbe un concetto e a questo una forma linguistica"[14]. Ciò porterebbe a concludere che, mentre le forme linguistiche sono convenzionali perché frutto di scelta arbitraria di vari popoli, i paqhmata e gli oggetti di cui sono immagini sarebbero invece uguali per tutti. Di fronte a tale rapporto di conformità, si annullerebbe l'attività psichica del soggetto e tale passività vedrebbe il reale determinare subito il pensiero. Sembrerebbe così che per Aristotele il soggetto non possa più conoscere la realtà colla sua azione, cioè ricostruendo nella coscienza l'oggetto per poi designarlo. Il piano della realtà determinerebbe cosi quello del pensiero e del linguaggio. Se quindi i paqhmata sono copie degli oggetti non mediate dalla coscienza, non possono essere che vere ed ogni distinzione tra vero e falso verrebbe a cadere.

Tutto ciò nasce da alcune interpretazioni che hanno ritenuto Aristotele volesse attribuire, nel De Interpretatione, tutti i processi psichici della coscienza ai paqhmata, atteggiamento perciò del soggetto verso il reale che pertanto dovrebbe essere caratterizzato dalla passività. In realtà egli rimanda al De Anima:

"Orbene di tutti questi argomenti si è parlato nei libri che riguardano l'anima: infatti appartengono ad una disciplina differente" (De Interpr. 16a, 8-9).

dove accanto alle affezioni-sensazioni, afferma D. Di Cesare[15], compaiono pure le immagini e i concetti per cui "Aristotele non si è solo occupato dei paqhmata nel De Anima, ma il vero oggetto della ricerca doveva essere in quella sede l'attività della coscienza nel suo complesso e quindi anche tutti i processi psichici attivi...".

Insistendo sul termine dei paqhmata in De Interpretatione. 16a, 1-8 Aristotele in un certo senso sottolinea la presenza di un certo condizionamento del pensiero da parte della realtà. La coscienza soggettiva infatti se non è determinata nella sua attività dal reale, non può però procedere arbitrariamente, senza tenerne conto. Ad ogni modo egli dovette esser consapevole della separazione dei tre piani (ontologico, logico, linguistico) e quindi della mancanza di corrispondenza tra la struttura del linguaggio e quella della realtà:

"Come nell'anima talvolta sussiste una nozione che prescinde dal vero e dal falso e talvolta invece sussiste qualcosa cui spetta necessariamente o di esser vero o di esser falso, cosi avviene per quanto si trova nel suono della voce" (De Interpr. 16a, 9-12).

"Ciò è provato dal fatto ad esempio che il termine irco-cervo significa bensì qualcosa, ma non indica alcunché di vero o di falso, se non è stato aggiunto l'essere, con una determinazione temporale" (De Interpr. 16a, 15-18).

E. Riondato[16] afferma che Aristotele si riferisce al termine "ircocervo" per dire che si può sapere solo quello che significa la parola, ma non ciò che in realtà è. Tale nome vale solo in quanto nome e significa di certo qualcosa, ma non che cosa determinatamente. Di conseguenza, non solo non esiste un parallelismo tra nome e cosa, ma la cosa è posta al di fuori del piano logico-linguistico. Il simbolismo dei nomi è inevitabile ed esso si sostituisce agli oggetti nel discorso. I nomi possono pur riferirsi ad oggetti inesistenti, perché la sola condizione necessaria e sufficiente è che esprimano cose immaginabili e/o pensabili. Riguardo al nome, al cap. 2 del De Interpretatione Aristotele dice:

"Il nome è cosi suono della voce significativo per convenzione, il quale prescinde dal tempo ed in cui nessuna parte è significativa se considerata separatamente" (De Interpr. 16a, 19-20).

Del verbo invece al cap. 3 afferma:

"Verbo d'altra parte è il nome che esprime inoltre una determinazione temporale; le sue parti non significano nulla separatamente ed esso risulta sempre espressione caratteristica di ciò che si dice di qualcos'altro" (De Interpr. 16b, 6-7).

Secondo G. Capozzi, Aristotele si serve della accezione di nome e verbo (onoma e rhma) per rilevare le differenze logiche del segno. "Nomi e verbi... si delineano con un profilo per il quale si identificano come segni convenzionali ma non naturali di oggetti o cose"[17]. La nota della convenzionalità appare essere ripetizione e completamento della nota di arbitrarietà e si risolve nel riconoscere l'essenza generale di nomi e verbi come segni logici degli oggetti. Ritiene altresì che onoma e rhma costituiscano una falsa partenza a causa della loro originaria struttura grammaticale, creando problemi insolubili per l'interpretazione.

Per A. Zadro, in realtà, appare chiaro che la distinzione tradizionale viene svuotata del suo valore linguistico-grammaticale proprio per lasciare il posto a quello nuovo di tipo logico, dove la presenza della temporalità è decisiva. Riguardo a ciò egli sottolinea come Aristotele per la prima volta in quest'opera introduca la funzione degli avverbi "presentati come allargamento semantico del contrassegno temporale gia esplicitato dal verbo"[18]. Probabilmente su Aristotele influiva ancora l'esperienza della tmesi, fenomeno linguistico presente in modo preponderante nella lingua arcaica di Omero e che attribuiva un valore significativo all'uso avverbiale.

"Dico che il verbo esprime inoltre una determinazione temporale come avviene ad esempio per 'la salute' che è un nome e per l'espressione 'sta in salute' (ugiainei) che è un verbo: in realtà tale verbo esprime oltrechè la salute il suo sussistere presentemente (to nun uparcein)" (De Interpr. 16b, 8-9).

Avviene quindi che l'espressione "to nun uparcein" è l'analisi del verbo "ugiainei", evidenziando l'avverbio "nun" che non indica l'istante ma una durata breve.

"Del pari il verbo è espressione caratteristica di ciò che si dice di qualcos'altro, ossia di ciò che si dice di un sostrato oppure di ciò che sussiste in un sostrato" (De Interpr. 16b, 10).

Il verbo dunque, oltre a distinguersi dal nome perché al significato aggiunge tempo, se ne distingue anche per esser sempre segno di ciò che viene detto di altro. Per esempio "corre" necessariamente vien detto di qualcosa o qualcuno che non è "correre", che può anche non farlo oppure farlo domani. Ma dicendo "il corridore corre", commenta E. Riondato, "corre" è segno di ciò che vien detto di altro, di qualcosa che sussiste nel corridore, di un soggetto. "Il verbo dunque per significare qualcosa come verbo esige una siffatta relazione che è necessaria oltre al tempo per contraddistinguerlo appunto come verbo[19]".

Per G. Capozzi il verbo risulta esser perciò segno sempre di ciò che si dice di qualcos'altro, quale che sia la sua struttura di inerenza o di sussunzione. In ogni caso adempie alla funzione generale semantica di imputare un riferimento a qualcosa che logicamente si mostra come diverso. Viene quindi a porsi questo tipo di correlazione: il soggetto è ciò di cui si predica il predicato. Qui il soggetto è determinato in funzione della pura relazione semantica in cui si trova col segno corrispettivo (predicato) e che è " ciò che differenzia specificamente il nome se è un contenuto che viene indirettamente determinato da ciò che si dice a proposito del verbo"[20].

Parlando ancora del nome, Aristotele introduce le nozioni di onoma aoriston:

"...Non-uomo... lo si potrà considerare tuttavia un nome indefinito..." (De Interpr. 16a, 32)

e di ptwsi onomatos:

"Per contro le espressioni 'di Filone, a Filone' e tutte quelle consimili non saranno nomi, bensì casi di un nome" (De Interpr. 16b, 1).

Nel primo caso, onoma preceduto da negazione, nella sua significatività indefinita, si può riportare sotto la generale definizione di nome e nel secondo caso ptwsi si deve porre fuori della definizione stessa, per l'impossibilità di formare con i casi obliqui delle connessioni verificabili.

"Il caso, unito ad è, era, sarà, non indica alcunchè di vero o di falso mentre il nome quando sia unito in uno di questi modi indica sempre verità o falsità" (De Interpr. 16b, 2-5).

Secondo D. Di Cesare[21] la genericità del segno, dipendente dalla sua simbolicità, trova proprio nella ptwsi una determinazione formale. Nell'atto linguistico il caso obbliga l'indeterminatezza del segno a cadere nella frase, a seconda dell'uso richiesto.

Aristotele distingue poi tra nome significativo come lo può esser ogni cosa espressa e il discorso che

"...è suono della voce, significativo, in cui una delle parti se separata risulta significativa cosi come lo è un termine detto non gia come un'affermazione ..." (De Interpr. 16b, 25-27).

In questo sussiste la prerogativa del discorso, cioè nell'esser correlazione di elementi significativi. All'opposto, per Aristotele, il nome non possiede la semanticità del discorso, perché non è simile correlazione ed ha bisogno di esser inserito nel discorso stesso che assume cosi il ruolo di mediatore tra segno linguistico e realtà che significa, ottenendo una semanticità più concreta. I segni mentali dell'oggetto quindi si rivelano nell'essere non solo nomi, ma funzioni semantiche, 'soggetto' e 'predicato', connotati da differenze logiche oltre alle generalità grammaticali, considerati in una struttura come il logos che "è relazione semantica di cui soggetto e predicato costituiscono i termini o aristotelicamente gli oroi"[22].

"Ogni discorso è poi significativo non già alla maniera di uno strumento naturale, bensì secondo quanto si è detto kata sunqhkhn. Dichiarativi sono però non già tutti i discorsi, ma quelli in cui sussiste una enunciazione vera oppure falsa. Tale enunciazione non sussiste certo in tutti: la preghiera (euch) ad esempio è un discorso ma non risulta né vera né falsa. Prescindiamo dunque dagli altri discorsi, dal momento che l'indagine al riguardo è più pertinente alla retorica o alla poetica" (De Interpr. 17a, 1-6).

A. Zadro[23] osserva come Aristotele parli dell'apofanticità, considerandola un ulteriore carattere del logos. Alla fine del cap. 4, egli identifica il logos della sua teoria con quello apofantico, da lui definito descrittivo, perché vuol mostrare qualcosa e permettere, unico logos a consentirlo, una verificazione. Gli altri logoi vengono invece affidati alla retorica e alla poetica, perché come l'euch, non possono esser verificati. D. Di Cesare[24] sottolinea qui la capacità del linguaggio per Aristotele di avere una funzione logica, poetica, o retorica. Ciò dipende dalla possibilità di un segno linguistico di svincolarsi in un senso o in un altro, a seconda dell'intenzione alla base dell'atto linguistico e che può esser comunicativa, logica o poetica. Il logo apofantico (o giudizio), esprimendo negazione o affermazione, impone la verifica della verità nel reale extra psichico e ben si differenzia da qualunque discorso non logico, ma solo semantico. Quindi se il linguaggio apofantico produce il vero o il falso e dev'esser verificato nel piano della realtà, il linguaggio poetico ad esempio produce il bello e non richiede alcuna verifica, dato che all'arte pertiene come oggetto il possibile.

"Il primo discorso dichiarativo che sia unitario è l'affermazione; in seguito viene la negazione. Ogni altro discorso è invece unitario per collegamento" (De Interpr. 17a, 8-9).

Quando nomi e verbi sono presi separatamente non sono né veri né falsi, mentre quando sono presi congiunti o disgiunti reciprocamente formano una proposizione, l'affermazione o negazione, che può esser vera o falsa. Per A. Zadro questi due discorsi enunciativi vengono considerati da Aristotele due unità elementari, mentre gli altri sono un legame che, disciolto, porta ad altri logoi. Nei casi perciò di legame (sunqhsis) elementare tra nome e verbo eimi, la negazione si pone all'opposto dell'ousia indicata dal nome. Ma ciò che l'autore vuole qui sottolineare è la novità introdotta da Aristotele nell' "attribuire al verbo eimi, separato, la costituzione dell'unità del logos, cioè la sunqhsis ..."[25]. Di per sé "essere" e "non essere" non significano nulla, ma fungono da trait-union tra altri due termini. Quindi un'affermazione o negazione sarà vera quando le cose che indica come unite o divise sono tali nella realtà e falsa viceversa.

"Per tale ragione inoltre l'espressione 'animale terrestre bipede' costituisce un'unità e non invece una molteplicità" (De Interpr. 17a, 3-4).

E. Riondato afferma che qui Aristotele non si riferisce ad un discorso, pur essendo un'unità, bensì ad una definizione. Si tratta di un'unità non perché la parole sono dette di seguito, ma "perché vi è l'espressione di un genere e di una differenza specifica"[26].

"Dico d'altronde che un giudizio si contrappone ad un altro, se afferma o nega una medesima determinazione rispetto ad un medesimo oggetto prescindendo dall'omonimia" (De Interpr. 17a, 34-37).

Ponendo poi a confronto due giudizi, uno affermativo e l'altro negativo, con lo stesso soggetto e predicato, si verifica una contraddizione. Per Aristotele non è possibile che una contraddizione sia vera e che quindi nella realtà uno stesso soggetto sia contemporaneamente unito e diviso dallo stesso predicato. Ed è qui che si origina il famoso principio di non-contraddizione. Nei capitoli successivi, Aristotele approfondirà la sua teoria del giudizio, esaminandone le differenze, individuate per qualità (or ora accennata), per quantità e per modalità, dando cosi una svolta decisiva nella elaborazione della linguistica greca per il suo definire lo specifico della attività logica rispetto a quella linguistica e ponendo delle salde basi per le speculazioni linguistiche posteriori.

 

Attraverso questo breve iter, coi mezzi in mio possesso, ho cercato di condensare quella che nella storia della ricerca linguistica dell'uomo può definirsi una tappa obbligatoria e che obbligatoriamente passa per Aristotele.

Per questa mia riflessione finale vorrei avvalermi di alcune annotazioni particolarmente interessanti di D. Di Cesare ed E. Riondato, riguardo all'imperare dell'aristotelismo moderno che non solo ha condizionato lo sviluppo della cultura linguistica, ma altresì quella scientifica e filosofica. L'aristotelismo moderno, infatti, pur riconoscendo de iure ad Aristotele il ruolo di fondatore degli studi linguistici (e non solo di essi), oggigiorno cerca di attuare una "demolizione della teoria aristotelica del linguaggio, intesa come ostacolo al prevalere di una linguistica scientifica"[27]. Tutto ciò è dovuto probabilmente a quell'accanirsi a voler "imbrigliare" Aristotele in una o in un'altra corrente di studi moderni,[28] i cui parametri di analisi sono spesso differenti dall'originario pensiero aristotelico, poiché si sono sviluppati in un contesto culturale estremamente diverso.

Non intendo con ciò affermare che in nome di nostalgiche passioni per quello che fu davvero un grande pensatore, si debba arrestare la giusta e naturale evoluzione degli studi. Ma certo sarebbe auspicabile che i moderni studiosi anzitutto considerassero Aristotele nel contesto storico, sociale, politico in cui egli operò e che determinò il suo pensiero. Successivamente che gli attribuissero il giusto merito per aver impostato per la prima volta problemi logico-linguistici e per aver codificato una nuova ed adeguata terminologia, di cui gli stessi moderni continuano a servirsi. Cosi facendo Aristotele non sarebbe più "ridotto ad una specie di testa di turco su cui sfogare le proprie intemperanze polemiche"[29]. Probabilmente la necessità di definirlo superabile o superato finirebbe col perdere la sua consistenza.

Per concludere, niente di meglio del far parlare lo stesso Aristotele per ricordare l'importanza in sé e per sé della scienza filosofica, libera da ogni vincolo e suffragata dalla capacità dell'uomo di sapersi sempre stupire per desiderare un'evoluzione delle sue conoscenze necessaria alla propria crescita: "... Infatti gli uomini hanno cominciato a filosofare ora come in origine a causa della meraviglia... E' evidente che come diciamo uomo libero colui che è fine a se stesso e non è asservito ad altri, così questa sola, tra tutte le altre scienze, diciamo libera: essa sola infatti è fine a sé stessa"[30].

Bibliografia

 

 

Per l'introduzione storico-linguistica:

 

P. Benincà, Istituzioni di grammatica storica e sincronica, Milano 1992

G. Yule, Introduzione alla linguistica, Bologna 1987

R. H. Robins, Storia della linguistica, Bologna 1987

 

 

Per lettura ed analisi del De Interpretatione (Aristotele):

 

Aristotele, De Interpretatione (testo in greco), Scriptorum classicorum Bibliotheca Oxoniensis, 1966

Aristotele, De Interpretatione (testo tradotto in italiano), Laterza, Roma-Bari 1984, capp. 1-2-3-4-5-6

 

 

Per l'analisi della teoria del linguaggio in Aristotele:

 

Aristoteles, De Interpretatione a cura di E. Riondato, Padova 1957

D. Di Cesare, "Aristotele" in La semantica nella filosofia greca, Roma 1980, pp. 157-204

G. Capozzi, Giudizio, prova e verità. I principi della scienza nell'analitica di Aristotele, Napoli 1974, pp. 37-60

A. Zadro, Tempo ed enunciati nel De Interpretatione, Padova 1979, pp.92-131



[1] Erodoto, Storie 8. 144. 2 to Ellhnikon, eon omaimon te kai omoglwsson

[2] Diog. Laerz., Vite e dottrine dei filosofi celebri, 3. 25 prwtos eqewrhseth grammatikh thn dunamin

[3] E. Berti, Storia della filosofia. Antichità e Medioevo, Roma-Bari 1991, p. 98

[4] Aristoteles, De Interpretatione a cura di E. Riondato, Padova 1957, p. 9

[5] E. Berti, op. cit p. 99

[6] E. Riondato, op. cit. pp. 5-6

[7] D. Di Cesare, La semantica nella filosofia greca, Roma 1980, p. 159

[8] E. Riondato, op. cit. p. 7

[9] D. Di Cesare, op. cit. p.163

[10] F. De Saussure, Corso di linguistica generale, Bari 1993, p. 85: "Noi riproponiamo di conservare le parole segno per designare il totale e di rimpiazzare concetto e immagine acustica rispettivamente con significato e significante"

[11] . Capozzi, Giudizio, prova, verità. I principi della scienza nell'Analitica di Aristotele, Napoli 1974, p.38

[12] D. Di Cesare, op. cit. p. 166

[13] A, Zadro, Tempo ed enunciati nel De Interpretatione, Padova 1979, p. 94

[14] D. Di Cesare, op. cit. p. 169

[15] D. Di Cesare, op. cit p.173

[16] E Riondato, op. cit p. 171

[17] . Capozzi, op. cit. p. 43

[18] A. Zadro, op. cit. p. 104

[19] E. Riondato, op. cit. p. 22

[20] . Capozzi, op. cit. p. 49

[21] D. Di Cesare, op. cit. p. 188

[22] . Capozzi, op. cit. p. 53

[23] A. Zadro, op. cit. p. 109

[24] D. Di Cesare, op. cit. p. 197

[25] A. Zadro, op. cit. p. 110

[26] E. Riondato, op. cit. p. 26

[27] D. Di Cesare, op. cit. p.158

[28] cfr. nota 4

[29] E. Berti, Aristotele nel Novecento, Roma-Bari 1992, p. 3

[30] Aristotele, Metafisica A2 982b 11-28